Il banditismo sardo nella storia

Il banditsmo esordisce nell’isola tanti secoli fa  come una resistenza all’invasore che pone le  genti  dell’interno come ribelli che, pur battendosi per una causa giusta,  sono considerati delinquenti. La sfiducia verso i vari conquistatori dell’isola e verso le istituzioni, lo stato di vita precario, la prepotenza dei feudatari hanno forgiato, nel corso dei secoli,  migliaia di popolani che, per un motivo o per un altro, si danno alla macchia  costituendo bande armate temibili quanto inafferrabili.  Nella foto I banditi Michele Moro e Liberato Onano catturati nel 1899.

di Sergio Atzeni

La piaga  del banditismo nell’isola si perde nella notte dei tempi, in un primo momento i banditi sono coloro che si oppongono alla conquista dell’isola da parte dei Cartaginesi e poi dei Romani che definiscono  “barbari” tutti quelli che non comprendono la loro lingua e cercano di contrastare le loro legioni e “Barbaria” la terra da loro abitata.

Una resistenza all’invasore che pone quelle genti  dell’interno come ribelli che, pur battendosi per una causa giusta,  sono considerati delinquenti. La sfiducia verso i vari conquistatori dell’isola e verso le istituzioni, lo stato di vita precario, la prepotenza dei feudatari hanno forgiato, nel corso dei secoli,  migliaia di popolani che, per un motivo o per un altro, si danno alla macchia  costituendo bande armate temibili quanto inafferrabili.

Quella massa di diseredati  che tutti chiamavano banditi, costituiva una forza che molti nobili usavano per terrorizzare e seminare il panico tra gli abitanti dei loro feudi e tenerli così in soggezione.

Quel fenomeno diventa pian piano inarrestabile e, quando la Sardegna passa ai Piemontesi nel 1720, la situazione nell’isola è giunta a uno stadio irreversibile.

Le bande infestano l’interno della Sardegna, le strade sono insicure e la forza pubblica nulla può fare contro quella moltitudine priva di scrupoli che conosce il territorio e che colpisce dileguandosi senza lasciare alcuna traccia.

Il fenomeno  è talmente organizzato che i Piemontesi hanno il sospetto che le bande siano sponsorizzate dagli Spagnoli con l’intento di preparare il terreno per un loro eventuale ritorno.

Nel 1738, un nutrito contingente di soldati al comando del viceré marchese di Rivarolo, setaccia tutti i territori dell’interno facendo un gran numero di prigionieri tra i latitanti:  ma è tutto inutile perché le bande si moltiplicano in quanto tanti sono  i soprusi e le ingiustizie che si abbattono sulla povera gente alla quale non rimane altra via che scappare e unirsi ai latitanti.

Inizia anche la rivalità tra le bande che cercano di occupare un zona e non permettono ad altri di violarla.

Una proprietà terriera non ufficiale nella quale si compiono tutti i generi di reato con la connivenza delle popolazioni che per la paura, non solo non denunciano i reati subiti, ma scagionano gli imputati per timore di rappresaglie: l’omertà entra prepotentemente nelle abitudini dei Sardi. Alla fine del ‘700 il banditismo è ormai radicato nell’isola e a nulla valgono le grandi forze messe in campo dal governo piemontese e la moltitudine di leggi per tentare di arginare il fenomeno come il divieto di portare la barba, segno distintivo dei fuorilegge.

Anche lo sforzo per controllare le strade o scortare le carrozze adibite ai collegamenti, si rivela inutile così come le severe pene comminate a quei pochi che cadono nelle mani dei militari.

Sul finire del XVIII secolo, centinaia sono i banditi già giudicati ancora alla macchia ai quali  si devono aggiungere altrettanti non ancora processati.

Rapine, omicidi, furti di bestiame sono i delitti più comuni che colpiscono un po’ tutti tanto che le autorità, per porre un freno all’attività criminosa, decidono di condonare la pena a coloro che faranno arrestare un bandito già condannato a pena uguale o superiore.

Si scatena una lotta intestina tra gli stessi malviventi che coinvolge anche le loro famiglie e, nel tentativo di ottenere l’impunità sulle spalle dei loro colleghi, si scatenano delle faide destinate a durare per decine d’anni fino allo sterminio di interi nuclei familiari.

I risultati che si ottengono sono però modesti e pericolosi delinquenti, grazie alla legge sulle catture, possono  circolare liberi nei paesi d’origine creando ulteriori paure e insicurezza agli onesti cittadini. Per poter riconoscere i latitanti,  viene distribuito alle forze dell’ordine un completo dossier con il ritratto e le condanne di ciascun bandito per facilitare la loro identificazione durante i sempre più frequenti rastrellamenti.

Vengono controllati tutti i vagabondi e coloro che non hanno una occupazione, con l’intento di togliere la manodopera necessaria ai rifornimenti e ai collegamenti indispensabili per sopravvivere alla macchia. Nonostante lo sforzo delle autorità, all’inizio dell’ottocento,  i banditi spadroneggiano ancora indisturbati nelle zone interne e nessuno può azzardarsi di intraprendere un viaggio da solo, ma neanche con le carrozze pubbliche che, se non scortate dalla cavalleria, sono preda certe delle bande.

Nel 1820,  con “l’Editto delle Chiudende”, la situazione si aggrava ulteriormente perché molti contadini e piccoli allevatori sono costretti ad abbandonare il proprio lavoro per le prepotenze dei colleghi più facoltosi che recintano grandi quantità di terre e li costringono a pagare esose gabelle per attingere acqua o per il semplice passaggio.

Le bande si ingrossano e questa volta il loro principale obiettivo sono i proprietari terrieri che iniziano a subire la violenza delinquenziale sulle loro persone e sui loro averi. I latitanti a metà  ‘800 sono più di mille seguiti da altrettanti accoliti che impongono la loro terribile legge e imperversano nel nuorese terrorizzando interi paesi.

Le bande sono ormai organizzate come veri battaglioni d’assalto e si permettono di isolare interi paesi e saccheggiarli: le famigerate “bardane” irrompono così improvvisamente nella storia della delinquenza isolana.

La lotta alla criminalità del nuovo Stato . Dopo l’unità d’Italia il governo cerca di arginare con energia la criminalità organizzata del sud concentrata nella Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, patrocinata da numerosi nobili e da sovrani in esilio, che vede come un tentativo di restaurazione e pertanto da combattere strenuamente, ma tralascia il fenomeno sardo che classifica come comune e che quindi può aspettare  perché  non è un pericolo per lo stato: errore fondamentale anche questo che produrrà conseguenze devastanti.

La situazione diventa così talmente grave che il governo nomina, nel 1869, una commissione d’inchiesta che però non approda a nulla se non alla constatazione della gravissima situazione sarda.

Oltre il fenomeno delinquenziale, le popolazioni subiscono continuamente soprusi e violenze  anche da parte delle classi più agiate e i ricchi accumulano sempre più denaro mentre i poveri sono alla disperazione e, non potendo contare su un lavoro che gli consenta di procurare almeno un pasto al giorno per la famiglia, si vedono costretti  a unirsi alla malavita alla macchia diventando delinquenti essi stessi.

 

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