Con la fusione con il Piemonte  nel 1847 la Sardegna perde l’Autonomia e inizia una crisi inarrestabile

Una  delegazione sarda accompagnata dal consiglio civico cagliaritano  al gran completo, si imbarca per Genova dove incontra altri inviati dei comuni isolani con Sassari i testa  e presenta al re, il 29 novembre del 1847, un memoriale con la richiesta formale di unione tra i due stati (Regno Sardegna e Ducato Piemonte). La richiesta è accolta con favore e si promette, come primo atto, l’abolizione dei dazi di entrata e quelli di uscita per l’olio, i vini.

 di Sergio Atzeni

Fin dall’insediamento aragonese la Sardegna gode di una autonomia in quanto il Regno di Aragona è una unione di stati sovrani (senza subalternità nei confronti di altri stati) ma imperfetti in quanto impediti a stipulare trattati internazionali.

Uno stato composto quindi con proprie istituzioni: un Parlamento,  una amministrazione locale della giustizia con a capo un sovrano  che è re di ogni singolo stato e nello stesso tempo è a capo dell’unione.

Poiché il  re non può essere presente contemporaneamente in tutti gli stati è rappresentato da un viceré  (o un governatore come in Sardegna nel primo periodo) che lo rappresenta.

Quindi fin dalla sua realizzazione di fatto, nel 1323 (il Regnum Sardiniae et Corsicae, istituito da Bonifacio VIII per risolvere la guerra del Vespro è concesso teoricamente al re d’Aragona che doveva conquistarlo per renderlo concreto) la nuova realtà’ giuridica, anche se nata per volontà del papa che si arrogava un falso diritto  (Costitutum Costantini),  è uno stato sovrano che si amministra autonomamente.

Queste prerogative rimangono inalterate anche quando il regno si unisce alla Spagna e poi al Piemonte, ma in questo caso i territori continentali (Piemonte) quando si considerano come parte dello stato assumono il nome di Regno di Sardegna.

Come già detto siamo sempre in presenza di uno stato composto, formato dai territori isolani e da quelli continentali che hanno proprie istituzioni, i Savoia sono a capo del Piemonte e della Sardegna (rappresentati da un Viceré) e guidano anche l’unione.

Quindi la Sardegna è formalmente autonoma con proprie istituzioni  tra le quali le più importanti sono:

Il Viceré –  che governa in nome e per conto del re Gli Stamenti – rappresentano i  tre ordini del regno, reale militare e ecclesiastico,   quando sono riuniti  formano le Corti e prendono il nome di bracci,  sono deputati alla corrente amministrazione dello stato e si riuniscono in seduta comune solo dietro ordine del sovrano (o del viceré che lo rappresenta).

Quando gli Stamenti si riuniscono dietro convocazione ufficiale, quasi sempre  per questioni eccezionali, assumono il nome di Parlamento (durante il periodo piemontese i Parlamenti non sono mai convocati mentre le Corti operano normalmente).

Stamento Reale – E’ composto dai rappresentanti delle città regie della Sardegna (non infeudate) è presieduto dal sindaco di Cagliari che prende il nome di “prima voce”.

Stamento Militare – E’ composto dai nobili e cavalieri che hanno compiuto i vent’anni, è presieduto dall’esponente col titolo più elevato che prende il nome di prima voce.

Stamento Ecclesiastico –  E’ composto dagli arcivescovi, dai vescovi, dagli abati e dai procuratori dei capitoli del regno,  lo presiede l’arcivescovo di Cagliari che prende il nome di prima voce.

La Reale Udienza – E’ il tribunale supremo della Sardegna al quale spetta l’amministrazione della giustizia, è presieduta dal viceré il suo massimo esponente è il Reggente della Reale Cancelleria che è anche  il secondo funzionario del regno.

Si compone  di diciotto giudici con due presidenti, è divisa in tre camere, due civili e una penale.

Se il viceré chiede il concorso della Reale Udienza per stilare i Pregoni o decreti questi  diventano automaticamente leggi dello stato.

L’Avvocato Fiscale generale – corrisponde al procuratore del re, il suo compito è quello di scoprire i reati e ottenere le condanne.

Consiglio Supremo di Sardegna –  I suoi uffici sono a Torino, giudica in ultima istanza le cause della Reale Udienza, dà il parere su tutti gli atti trasmessi  dal governo sardo per essere portati a conoscenza del re.

Alcuni  commercianti titolari di imprese di grandi dimensione sentono il bisogno di eliminare i dazi doganali dovuti per le merci che escono dal regno, infatti tutto ciò che parte dalla Sardegna e diretto verso il Piemonte o all’estero e gravato da gabelle che ne fanno aumentare il prezzo non rendendo le esportazioni  competitive; anche le merci in arrivo pagano i dazi di entrata che vanno a finire a Torino per cui i prodotti acquistati, normalmente dai nobili e dai più facoltosi, hanno un costo elevato.

L’unione perfetta con il Piemonte poteva cancellare gli odiati dazi, avvantaggiando gli imprenditori che iniziano a pensare seriamente a quella ipotesi.

Anche la categoria che aveva aspirazioni parlamentari preme per la fusione in quanto sedere nel parlamento di Torino è molto ambito e inoltre permette di essere a contatto con le leve del potere e con lo stesso sovrano.

Gli ex feudatari che avevano incassato come compenso per l’abolizione dei feudi  solo delle cartelle  di debito pubblico, si sentono poco tranquilli  perché il loro debitore è la Sardegna che passa da una crisi economica all’altra ed è funestata da epidemie, incendi e  siccità quindi  la popolazione può non essere in grado di  pagare le tasse e lo stato non onorare le obbligazioni: con questo motivo la fusione e auspicata anche da questa categoria in quanto il suo credito verrebbe riconosciuto dallo stato unitario, molto più affidabile.

Anche il popolo sembra essere favorevole   alla  fusione, forse  non riesce a capirne il vero significato ma è influenzato dai più colti che agiscono per propri fini: il miraggio di veder riconosciuti gli stessi compensi dei lavoratori piemontesi forse è la ragione più plausibile che gioca a favore dell’unione.

Cosciente è invece l’atteggiamento dei funzionari locali, degli insegnanti e dei liberi  professionisti che vedono la fusione come unico modo per essere parificati ai loro colleghi piemontesi sia come stipendi che come occasioni di lavoro poiché si aprirebbe un “mercato” al momento ermeticamente chiuso.

Dagli studenti universitari di Cagliari, nel 1847, parte l’iniziativa di chiedere pubblicamente la fusione, influenzati forse da quel periodo di riforme e dall’esigenza, oramai sentita da più parti, di unificare l’Italia fondendo i piccoli stati indipendenti che impedivano la nascita di una  grande nazione unita, pare logico iniziare dal regno di Sardegna, il loro stato, anch’esso diviso.

Riuniti in gran numero si presentano davanti al palazzo regio insieme a una folla di cittadini che si accoda entusiasta, chiedendo al viceré di far partire una delegazioni degli Stamenti per porre direttamente la richiesta al sovrano.

Il viceré è favorevole e la gente entusiasta  grida ” Viva Carlo Alberto viva l’unione”.

Come sono cambiate le cose in soli 50 anni quando, nel 1794, i Piemontesi sono costretti a lasciare l’isola tra lo scherno dei  Cagliaritani, è evidente che gli interessi dei benpensanti  ora coincidono con l’unione, ma anche la popolarità di Carlo Alberto  e la sua politica liberale, contribuiscono a avere un occhio diverso verso quei prepotenti “continentali”.

La delegazione accompagnata dal consiglio civico al gran completo, si imbarca per Genova dove incontra altri inviati dei comuni isolani con Sassari i testa  e presenta al re, il 29 novembre del 1847, un memoriale con la richiesta formale di unione tra i due stati.

La richiesta è accolta con favore e si promette, come primo atto, l’abolizione dei dazi di entrata e quelli di uscita per l’olio, i vini.

Chiaramente non tutti sono favorevoli alla fusione e a Cagliari circolano volantini e scritte sui muri  che la contestano, anche la cronaca della richiesta popolare tratta da un saggio  del senatore Carlo Baudi di Vesme, appare come una elevazione della cittadinanza che è tutta schierata per l’unione e per il re, parrebbe di capire dall’entusiasmo e dal modo di riportare i fatti che gli interessati, tutto sommato, fossero proprio i Piemontesi che forse avevano in mente di liberarsi della Sardegna e spianavano la strada affinché fosse il parlamento di Torino a prendere la decisione senza consultare  gli Stamenti che certo si sarebbero opposti: è solo una congettura ma le voci che circolano in quel periodo confermano l’intenzione di volersi disfare dell’isola.

Con una solerzia prima sconosciuta, il 3 dicembre,  Carlo Alberto con una dichiarazione ufficiale fa sapere di accogliere l’istanza dei sardi “Per formare una sola famiglia di tutti i suoi amati sudditi con perfetta parità di trattamento”.

Carlo Alberto con le sue concessioni aveva già dimostrato di essere un re liberale ma questa volta accoglie le richieste solo dopo tre giorni. Una coincidenza o un atteggiamento studiato o preparato?

Il 4 marzo 1848 il re emana lo Statuto Fondamentale del Regno il quale  stabilisce che il potere legislativo è esercitato dallo stesso re, dal Senato i cui componenti sono di nomina regia e dalla Camera elettiva.

La Sardegna si reca alle urne  il 17 aprile e elegge 15 deputati, una goccia nel mare dei parlamentari piemontesi, che non avranno gran voce col risultato di aggravare la situazione economica dell’isola.

Con la fusione cessano tutte gli prerogative e le istituzione del  vecchio regno di Sardegna compresa la carica di viceré i sardi sono esentati, fino al 1851, con provvedimento apposito dal servizio militare obbligatorio tutte le leggi vigenti in terraferma vengono applicate all’isola.

Come si vedrà negli anni a seguire, la fusione non si dimostra un affare per la Sardegna che continua a essere emarginata  e oggetto di commissioni d’inchiesta che producono solo documenti e nessun intervento che affronti almeno i problemi L’isola ha perso un’autonomia  consolidata nei secoli  proprio nel momento sbagliato perché, se fosse giunta all’unità d’Italia conservandola, con le necessarie modifiche avrebbe potuto godere  di grandi vantaggi perchè

 La Sardegna con la “Fusione” perde l’autonomia

Con la divisione territoriale del regno tra stato continentale (Piemonte) e stato insulare (Sardegna), tutto ciò che parte dall’isola e diretto verso il Piemonte o all’estero è gravato da gabelle che ne fanno aumentare il prezzo non rendendo le esportazioni  competitive.

Anche le merci in arrivo pagano i dazi di entrata che vanno a finire a Torino per cui i prodotti acquistati, normalmente dai nobili e dai più facoltosi, hanno un costo elevato.

E’ logico quindi che i  commercianti, almeno quelli titolari di imprese di grandi dimensione, sentano il bisogno di eliminare i dazi doganali dovuti per le merci che escono dal regno e per questi motivo vedono l’unificazione giuridica a loro favorevole.

L’unione perfetta con il Piemonte poteva cancellare gli odiati dazi, avvantaggiando gli imprenditori che iniziano a pensare seriamente a quella ipotesi.

Anche la categoria che aveva aspirazioni parlamentari preme per la fusione in quanto sedere nel parlamento di Torino è molto ambito e inoltre permette di essere a contatto con le leve del potere e con lo stesso sovrano.

Gli ex feudatari che avevano incassato come compenso per l’abolizione dei feudi  solo delle cartelle  di debito pubblico, si sentono poco tranquilli  perché il loro debitore è la Sardegna che passa da una crisi economica all’altra ed è funestata da epidemie, incendi e  siccità  col pericolo che la popolazione non sia in grado di  pagare le tasse e lo Stato di conseguenza non possa onorare le obbligazioni.

Per questi motivi la fusione è auspicata anche da questa categoria in quanto il proprio credito verrebbe riconosciuto dallo stato unitario sicuramente più affidabile.

Anche il popolo sembra essere favorevole alla  fusione, forse  non riesce a capirne il vero significato ma è influenzato dai più colti che agiscono per propri fini: il miraggio di veder riconosciuti gli stessi compensi dei lavoratori piemontesi forse è la ragione più plausibile che gioca a favore dell’unione.

Cosciente è invece l’atteggiamento dei funzionari locali, degli insegnanti e dei liberi  professionisti che vedono la fusione come unico modo per essere parificati ai loro colleghi della terra ferma sia come stipendi che come occasioni di lavoro poiché si aprirebbe un “mercato” al momento ermeticamente chiuso.

Dagli studenti universitari di Cagliari, nel 1847, parte l’iniziativa di chiedere pubblicamente la fusione, influenzati forse da quel periodo di riforme e dall’esigenza, oramai sentita da più parti, di unificare l’Italia fondendo i piccoli stati indipendenti che impedivano la nascita di una  grande nazione unita e pare logico iniziare dal regno di Sardegna, il loro stato, anch’esso diviso. Riuniti in gran numero si presentano davanti al palazzo regio insieme a una folla di cittadini che si accoda entusiasta, chiedendo al viceré di far partire una delegazione degli Stamenti per porre direttamente la richiesta al sovrano.

Il viceré è favorevole e la gente entusiasta  grida e   inneggia  Carlo Alberto e “l’Unione”. Come sono cambiate le cose in soli 50 anni  da quando, nel 1794, i Piemontesi sono costretti a lasciare l’isola tra lo scherno dei  Cagliaritani:  è evidente che gli interessi dei benpensanti  ora coincidono con l’unione, ma anche la popolarità di Carlo Alberto  e la sua politica liberale, contribuiscono a vedere con occhio diverso quei prepotenti “continentali”.

La delegazione accompagnata dal Consiglio civico al gran completo, si imbarca per Genova dove incontra altri inviati dei comuni isolani con Sassari i testa  e presenta al re,  il 29 novembre del 1847, un memoriale con la richiesta formale di “Unione perfetta”.

La richiesta è accolta con favore e si promette, come primo atto, l’abolizione dei dazi di entrata e quelli di uscita per l’olio e i vini. Chiaramente non tutti sono favorevoli alla fusione e, a Cagliari, circolano volantini e scritte sui muri  che la contestano, in certi ambienti signorili si temono ripercussioni negative per la debolezza economica locale.

La fusione per la cronaca ufficiale,  descritta in un  saggio  del senatore Carlo Baudi di Vesme, viene presentata come fermamente voluta dalla volontà popolare che è tutta schierata per l’unione e per il re.

Parrebbe di capire dall’entusiasmo e dal modo di riportare i fatti che gli interessati, tutto sommato, fossero proprio i Piemontesi che forse avevano in mente di liberarsi della Sardegna e spianavano la strada affinché fosse il parlamento di Torino a prendere la decisione, senza consultare  gli Stamenti che certo si sarebbero opposti: è solo una congettura ma le voci che circolano in quel periodo confermano l’intenzione di volersi disfare dell’isola. Con una solerzia prima sconosciuta, il 3 dicembre,  Carlo Alberto con una dichiarazione ufficiale fa sapere di accogliere l’istanza dei Sardi “Per formare una sola famiglia di tutti i suoi amati sudditi con perfetta parità di trattamento”.

Carlo Alberto con le sue concessioni aveva già dimostrato di essere un re liberale, ma questa volta accoglie le richieste solo dopo tre giorni. Una coincidenza o un atteggiamento studiato e preparato? Il 4 marzo 1848 il re emana lo Statuto Fondamentale del Regno il quale  stabilisce che il potere legislativo è esercitato dallo stesso re, dal Senato i cui componenti sono di nomina regia e dalla Camera elettiva.

La Sardegna si reca alle urne  il 17 aprile ed elegge 15 deputati, una goccia nel mare dei parlamentari piemontesi, che non avranno gran voce col risultato di aggravare la situazione economica dell’isola.

Con la fusione cessano tutte le prerogative e le istituzione del  vecchio regno di Sardegna compresa la carica di viceré e i Sardi sono esentati, fino al 1851 con provvedimento apposito, dal servizio militare obbligatorio, tutte le leggi vigenti in terraferma vengono applicate all’isola.

Come si vedrà negli anni a seguire, la fusione non si dimostrerà un affare per la Sardegna che continuerà ad essere emarginata  ed oggetto di commissioni d’inchiesta che producono solo documenti e nessun intervento che affronti almeno i problemi.

L’isola ha perso un’autonomia consolidata nei secoli  proprio nel momento sbagliato perché, se fosse giunta all’unità d’Italia conservandola, con le necessarie modifiche avrebbe potuto godere di grandi vantaggi. Invece, per ironia della sorte, l’esigenza di una nuova autonomia è sentita all’indomani della creazione dello stato italiano e sarà seguita e sognata a lungo dagli intellettuali locali.

Dopo la prima guerra mondiale diventerà una esigenza portata avanti dal neonato Partito Sardo d’Azione, ma rimarrà solo un desiderio non esaudito fino al 1948 quando lo statuto autonomo sarà approvato dal parlamento italiano.

Qualcuno sostiene che la Sardegna ha perso cento anni della sua storia quando, non per volontà del popolo, ma per gli interessi di alcune classi, richiese l’unione perfetta ottenuta poi nel  1847, perché ci volle un secolo  per riconquistare ciò che già si aveva.

 

 

Leave a Reply